brexit: più un rischio politico che non un problema economico

Nelle ultime settimane i mercati finanziari sono entrati in fibrillazione per l’avvicinasi della data del referendum con cui il Regno Unito sarà chiamato a confermare o meno la sua permanenza all’interno dell’Unione Europea, e con l’aumento delle probabilità di una vittoria dei “Leave” sui “Remain”. Negli ultimi giorni, dopo il tragico attentato nel quale ha perso la vita una deputata laburista, la tendenza sembra essersi invertita a favore del campo pro-Europa, ma in ogni caso la volatilità dei mercati rimane alta e l’incertezza degli investitori non accenna a calare.

Il quadro è particolarmente confuso, perché l’eventuale vittoria dei “Leave” non avrebbe effetti né immediati, né certi: scatterebbe la procedura prevista dall’articolo 50 del Trattato dell’Unione, che disciplina il recesso unilaterale e volontario di un paese membro. La norma prevede la stipula di un accordo tra il Regno Unito e il Consiglio Europeo, volto a definire i termini e le modalità dell’uscita. Le negoziazioni per giungere a tale accordo avrebbero necessariamente tempi lunghi e potrebbero svolgersi in un clima contrastato, rendendo ancora più difficile immaginarne la durata e l’esito.

Le varie simulazioni di impatto economico dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione soffrono, da un lato dell’incertezza in merito allo status del paese nell’ambito del commercio e delle relazioni internazionali (anche ipotizzando il raggiungimento di un accordo politico entro tempi ragionevoli misurabili comunque in anni)  e dall’altro del rischio che, almeno in parte, questi studi abbiano l’obiettivo di influenzare l’opinione pubblica nel corso di un’aspra campagna elettorale.

D’altra parte, i mercati finanziari non sembrano aver preso di mira in modo particolare gli asset britannici. Unica  eccezione la Sterlina che si è indebolita verso Euro e Dollaro nei momenti favorevoli all’uscita, per poi tornare a rafforzarsi col prevalere dell’esito opposto. Il mercato azionario inglese e i titoli di stato, non hanno evidenziato una particolare divergenza rispetto alle omologhe classi di attivi dell’Europa continentale. Non si è prodotto uno “spread” britannico, come invece è successo per l’Italia nella difficile situazione del 2011.

Chiaramente, un’eventuale vittoria dei “Leave” potrebbe acuire la volatilità dei mercati, così come un voto pro-Europa potrebbe innescare un movimento al rialzo, di “scampato pericolo”. Rimane l’impressione che tutto ciò potrebbe rivelarsi una reazione di breve periodo; la sfida vera che il referendum britannico evidenzia riguarda la tenuta dell’Unione Europea nel lungo periodo. L’andamento “composto” degli asset britannici in questo ultimo periodo, lascia presagire che i mercati considerino l’eventuale uscita dall’Unione un evento non catastrofico per l’economia inglese, anche se non privo di rilevanti aggiustamenti nel breve e medio periodo. Spaventa di più l’incertezza che circonda questo evento e, l’effetto che potrebbe avere sulla faticosa costruzione dell’Unione Europea, specialmente se l’esempio britannico dovesse essere seguito da qualche altro paese, altrettanto importante.

In questa ottica, il referendum britannico si inserisce in un più ampio contesto di protesta della classe media europea contro gli establishment nazionali e la burocrazia dell’Unione, che ha già portato a voti favorevoli a movimenti populisti ed euroscettici in vari appuntamenti elettorali. Un voto favorevole alla “Brexit” potrebbe essere un potente catalizzatore per queste tendenze; di contro, il prevalere del campo pro-Europa, soprattutto se con margini risicati, non inibirebbe un effetto emulazione in altri paesi. È quindi probabile che i mercati finanziari continuino anche dopo il voto ad interrogarsi sulla tenuta e sulla stabilità dell’Unione Europea, almeno in assenza di più chiari meccanismi di integrazione, che riguadagnino alle strutture dell’Unione il favore dei cittadini degli stati membri, oggi molto scettici secondo numerosi sondaggi.

La Brexit, quindi, appare più un rischio politico che non un problema economico e forse potrebbe colpire più l’Unione Europea rispetto al Regno Unito.